1. Le tre facce della medaglia


(Versione inglese)

Pierre Jan van der Ouderaa (1841-1915), The Temptation Of Eve. Fonte


Dal libro dei Savi di Arkaas.


“… la leggenda di quegli esseri valicò le generazioni. Nessun sapeva chi fossero né da dove venissero. Con il passare del tempo i particolari si erano offuscati. Erano uomini o demoni? Angeli o dei? E se erano demoni o angeli, erano esseri perduti a ogni bene o entità splendenti? Fatto sta che il mondo dopo di loro cambiò. Così almeno sembrò alle menti delle generazioni successive.

Così come sembrò che il mondo era affondato nelle tenebre ...”

1.1 Sed libera nos a malo


Roma, 5 maggio 2014


Erano già le 9 e mezzo di sera. La sera era fredda e nuvolosa nonostante la stagione. I due adolescenti, diciotto anni lui e sedici lei, si scaldavano al fuoco della passione giovanile.

Non distanti, lungo l'Appia antica, i pochi sarcofagi non trasferiti nei musei con i volti di chi li occupava, consunti dai millenni, che sembravano interrogarsi sul destino della razza umana.


In lontananza, come placide stelle ascendenti e discendenti in mezzo alla tempesta in arrivo, le luci degli aerei in atterraggio e decollo dall'aeroporto di Ciampino. Delle luci erano visibili anche alla periferia della cittadina omonima, di quasi 40.000 abitanti.

La coppia si era attardata dietro a un cespuglio, ai piedi di un grande pino. Il parco dell'Appia galleggiava nel silenzio interrotto a tratti solo dal rimbombo di tuoni lontani e dal mormorio dei pini.

Le comunità di Ciampino, Marino e Frascati, sui colli Albani, assieme alle ville dei ricchi e famosi attorno all'Appia antica, erano intente ai riti dell’amicizia, della famiglia e della cene romane, interminabili e festose.

Il cane bianco della ragazza, di taglia grande e razza indefinibile, guaiva leggermente.

“Ti prego, Giuliano, no, non sono ancora pronta …”.

“Simona, tesoro, quasi tutte le ragazze lo fanno alla tua età.”

Il giovane era un noto bellimbusto del bar centrale di Ciampino. Aveva occhi chiari e capelli castani e lo si vedeva perennemente seduto su una Ducati dalle cromature scintillanti. Dedito al piccolo spaccio oltre che all’arte antica di sedurre donne d'ogni età stringeva la 16enne con la mano sinistra mentre con la destra le sfilava le mutandine.

Simona, dal seno giunonico e dal corpo snello, era la ragazza più desiderata del Tecnico Commerciale Vallauri di Ciampino, i cui cancelli erano proprio accanto al bar frequentato da Giuliano.

Aveva dei begli occhi neri grandi e dei capelli altrettanto neri. I genitori si erano opposti in tutti i modi al legame tra la figlia e il giovane, ma la cotta di Simona era troppo forte e i due avevano continuato a vedersi di nascosto.

“No, Giuliano, non lo fare amore mio...”.

I due corpi si congiunsero. Gli amanti persero la cognizione del tempo e dello spazio.


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Tutto avvenne con troppa rapidità. Nemmeno il cane si accorse di nulla.

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Il corpo splendido della danzatrice era scosso da fremiti lievi. Capelli neri come la pece le cadevano sulle spalle in una massa folta intessuta di trecce sottili. Il viso ovale era dominato da occhi allungati di un celeste pallido e dallo sguardo così inquietante da incutere timore sui suoi sottoposti (che, con termine arcaico, la chiamavano Domna) e su chiunque se la trovava di fronte. Nuda tranne che per un sottilissimo tanga blu notte aveva gambe forti perfettamente modellate che finivano con piedi squisiti egualmente forti.

Le dita dei piedi (oltre che delle mani), smaltate e dello stesso colore del tanga, possedevano una vita propria, quasi tentacoli d'un polipo maligno che danzavano sul corpo nudo del 18enne la cui bocca era stata sigillata meticolosamente utilizzando prima tamponi di una sostanza sintetica interposti tra le gengive e le labbra, quindi un nastro isolante decorato da geroglifici misteriosi.

Danzavano, i piedi, tormentando gli orifizi rimasti aperti nel viso del giovane, i cui occhi, spalancati e increduli, esprimevano orrore.

La donna si girò alla sua sinistra e danzò allo stesso modo sul corpo egualmente nudo della ragazza, scossa da singhiozzi e con il volto inondato di lacrime.

I giovani erano legati a gambe divaricate su di un immenso letto di 4 metri per lato. Sdraiati sul fianco, capo a piedi rispetto alla loro tormentatrice, avevano la testa all'altezza dei piedi della donna e le gambe (fissate una al soffitto e l’altra al muro) all’altezza del suo capo.

Il letto, maestoso e di quercia intagliata, era collocato al centro di una vasta stanza la quale, come il letto, dava il senso della ricchezza. Stoffe, divani, quadri inspiegabili oltre che oggetti di ogni epoca e paese si trovavano dappertutto ed erano disposti con notevole senso estetico. Al soffitto quattro grandi lampadari di Murano completavano l’arredamento.

La ricchezza della stanza, però, non comunicava il senso della vita quanto piuttosto una tetraggine inquietante resa ancora più tale dal fatto che il locale era leggermente umido.

Domna, distesa sul letto in mezzo ai due giovani, disponeva di uno spazio di più di due metri di larghezza il che le permetteva di piroettare e danzare a piacimento. Una danza fredda, lucida, crudele, che la portò per un numero lungo di minuti a trattare in modo efferato le parti intime del giovane che emise urla soffocate.

La sedicenne, con la bocca sigillata allo stesso modo, non resse alla tortura del suo innamorato e si diede a grida e scene inconsulte. La danzatrice allora si girò e la colpì a piedi uniti e con forza inaudita prima all'inguine – il che fece ululare la giovane sia pure attraverso il suo bavaglio – e poi alla testa.

La ragazza emise un suono strano, poi perse i sensi e si accasciò.

La donna, agile come un gatto, fece una giravolta e proiettandosi in aria cadde con eleganza in piedi sul pavimento. Poi, a un cenno della sua mano comparvero ...


Costantinopoli, primi di maggio del 510 d. C. 

… due uomini e una donna, vestiti anch'essi del colore della notte.

“Devo purtroppo assentarmi. Sapete quel che dovete fare” disse con un sorriso terribile.

“E del cane, che ne facciamo?”
“Quando si sveglierà deve seguire la sorte della coppia.”

Quindi abbandonò il luogo dalle immense arcate e imboccata una stretta scala che solo lei conosceva giunse in lussuosi appartamenti dove tre schiavi e tre schiave la accolsero con timorosa soggezione.

La svestirono e a testa bassa la condussero in una grande vasca di marmo policromo dove, con spugne e profumi di Siria, la lavarono delicatamente.

Truccata e poi rivestita con un arcaico chitone retto da fibulae d’argento, Domna uscì e percorso un vasto corridoio entrò in un grande salone. Si assise su di una poltrona sopraelevata e lì attese qualche minuto.

L'uomo venne presto annunciato.

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“Sei in ritardo” disse con disprezzo.
“La strada era lunga.” C’era paura nella sua voce. “Sono dovuto andare in Italia, o mia Domna, e di lì in Britannia, oltre l’Oceano, e poi tornare qui...”
“Lo sai cosa succede a chi non mi serve bene.”

L'uomo rabbrividì. In mezzo alle profonde cicatrici che ne deturpavano il volto traluceva lo sguardo aguzzo e spietato del cacciatore di uomini. Un grande mantello scuro con un largo cappuccio tirato giù sopra le spalle gli avvolgeva il corpo.

“Ora dimmi cosa sai.”
“Stanno per arrivare. Uno è già lì, in Britannia, e i suoi amici lo vogliono ritrovare e forse riportare in Italia. Le mie fonti sono sicure.”

“Bene. Bisogna fare in modo che si perdano nell'Ade o nell'Inferno dei Cristiani. E per quello che è già in Britannia, 'Colui che è Sopra' di me ha un piano speciale. Prendi gli uomini e le risorse che ti servono. Il denaro non è un problema. Se fallisci mi occuperò di te personalmente.”

L'uomo ebbe un sussulto ma si dominò. Disse con voce rauca:

“Sarà fatto o mia signora.” Quindi lasciò in fretta la grande sala.

"Non c'è un momento da perdere" disse tra sé e sé.
“So chi reclutare. Quei maledetti pagheranno in modo terribile per tutto quello che sono costretto a sopportare."

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Domna tornò nei suoi appartamenti dove si fece rivestire per il freddo della notte. La stagione era insolitamente gelida e nuvolosa. Uscì per le strade di Costantinopoli, la capitale dell’Impero Romano d’Oriente, scortata da tre schiavi forniti di torce. Le strade erano quasi deserte. Il cielo, minaccioso, era screziato dai fulmini.

Percorse l’intrico di vicoli acciottolati in direzione del teatro dove Teodora, di 10 anni, e le sorelle più grandi, Comitò e Anastasia, stavano per intrattenere gli spettatori.

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Roma, 6 maggio 2014, ore 6:30

Dopo una notte di fulmini e tempesta un’alba rosata sorgeva placida dietro ai colli da cui nacque la stirpe di Roma, Roma la sacra, la grande, la superba.

Luci morbide cominciavano a diffondersi per le strade, le chiese e le fontane dei comuni di Marino, di Castel Gandolfo e di Frascati. Un calore tiepido avvolgeva umani, animali e piante e pareva dar pace alle sofferenze, immancabili in ogni esistenza.

Una pace illusoria, in verità, poiché mista all’orrore.

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I tre corpi martoriati e crocefissi si stagliavano contro un cielo repentinamente striato di rosso. Affissi con chiodi bruni su tronchi freschi, appena tagliati, squadrati e rigati di sangue, erano stati posti con la schiena rivolta ad Occidente e i volti ad Oriente.

“Maria santissima!” esclamò pallido l’agente scelto Carmelo Caruso, della stazione di polizia di via Appia Nuova. Poi con una smorfia aggiunse:

“In 20 anni di servizio non ho mai visto una cosa del genere.”

Le luci di quattro volanti e il gracchiare delle radio della polizia facevano da contrappunto prosaico alla scena spaventosa.

“Caruso!” gridò l’ispettore Alfredo Santagata.
“Controlli bene le recinzioni, e che nessuno si avvicini!”

Nonostante l’ora mattutina molti curiosi stavano già avvicinandosi alle tre croci, che si stagliavano troppo nettamente sull’Appia antica per non esser notate dai pendolari provenienti dal sud del Lazio e dalla Campania e diretti, sulla parallela Appia Nuova, verso la capitale.

Alcune macchine e moto di grossa cilindrata si erano già fermate sul ciglio della strada e vari curiosi guardavano inorriditi i tre cadaveri appesi che davano misera mostra di sé.

Il commissario Carlo D'Agostino era alto, robusto, con occhi intelligenti e riflessivi e il mento volitivo. Aveva appena finito di interrogare Adi Putra Wijaya, il giovane indonesiano che per primo aveva trovato i corpi dei due giovani e del cane.

Adi Putra Wijaya lavorava come giardiniere presso la villa del Prof. Giordano Valeri, un noto chirurgo estetico del Policlinico Gemelli di Roma.

“La mattina molto presto - aveva detto al commissario con espressione spaventata – porto sempre a spasso i due Setter Laverack del professore. A poca distanza dal solito viottolo, nel parco dell’Appia antica, me li sono trovati davanti, quei due poveri ragazzi, ridotti così, con il grosso cane bianco crocefisso in mezzo.”

Il commissario congedò il giardiniere dopo avergli comunicato che avrebbero probabilmente ancora avuto bisogno di lui. Poi prese il cellulare e, scuro in volto, chiamò Franco Cardini, della polizia scientifica.

“Franco, è una cosa pazzesca. Vieni qui prima che si scateni l’inferno.”

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Roma, 6 maggio 2014. Rione Monti, ore 10 di mattina

Massimo Giordano uscì dal vicoletto dove abitava e imboccò via degli Zingari per poi scendere giù in via Leonina a sgranchirsi le gambe. Cuffie agli orecchi e scarpe da ginnastica, a 35 anni era nel pieno dell’età.

1 metro e 87, atletico, occhi verdi e capelli scuri, assomigliava al calciatore Fabio Cannavaro. Le scarpe volavano sui sampietrini, i ciottoli del centro della capitale, fatti di selce vulcanica dei Colli Albani, utilizzata anche dagli antichi romani per lastricare le strade.

Non li aveva mai amati, i sampietrini, ma adesso riusciva anche a correrci con notevole agilità. Il terribile incidente avvenuto 15 anni prima aveva stroncato la sua brillante carriera di calciatore, causato il divorzio con la moglie Marta e il distacco, dolorosissimo, dalla figlia Giulia. Tutto ciò era ormai passato anche se le ferite dell’anima non si rimarginano facilmente.

Intravide il buon vecchio Dave che scendeva esitando per le ripide scale della Salita dei Borgia, con le sue improbabili casacche color panna in perfetto stile casual anglosassone d’una volta. Dave aveva i capelli candidi e la pelle bianchissima. Massimo l’aveva incontrato 4 anni prima di fronte a una bancarella di libri a lato di Castel S. Angelo. Il vecchio stava comprando in lingua originale, greco e latino, delle opere di Plutarco e Cicerone sugli antichi dei, interessi che Massimo condivideva. Poco dopo erano seduti a un bar a via di Panico e da allora ogni tanto si vedevano, anche perché Dave abitava in un bell’attico con terrazza nei pressi di S. Maria Maggiore, non distante da Monti.

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Gli fece un cenno e insieme andarono a sedersi a un tavolino del bar centrale della piazzetta che, nel rione, è un po’ il punto d’incontro. Dave ordinò un cappuccino, delle uova strapazzate e una Guinness extra stout. Massimo un cappuccino e cornetto, poi ci ripensò e aggiunse anche una Harp Strong. 

Dopo la tempesta notturna un raggio di sole risollevò gli animi afflitti dal maltempo e dalla crisi dell’economia. I due chiacchieravano alternando l’inglese e l’italiano. Massimo parlava un poco americano poiché alla fine dell’adolescenza, in uno dei suoi atti di rivolta contro il padre, aveva vissuto quasi un anno a Trastevere con Mariza Regan, un'americana di S. Francisco.

Ad un certo punto, sorseggiando la Guinness con evidente piacere, il vecchio si avventurò in una delle sue narrazioni:

“Se non avessi intrapreso la carriera diplomatica e girato il mondo, adesso sarei un rude neozelandese come ne conosco tanti nella mia contea, intento a badare ai suoi acri di terra, con gli occhi che scrutano il cielo la sera per interrogare la clemenza del tempo.”

“A me sembra un sogno, la Nuova Zelanda” disse Massimo. “La pace, la natura intatta. Un mio cugino voleva vender casa e comprarvi della terra, ma poi non l’ha fatto. Un momento passeggero di fuga mentale, credo.”

Dave non rispose e guardò meditativo romani e turisti che sciamavano per via dei Serpenti.

“Ma, tra i tanti paesi in cui sei vissuto, perché ti sei fermato proprio a Roma?” continuò l’ex attaccante della AS Roma. "Non ti frastorna il caos, il menefreghismo?”

“Il vostro è un caos vitale, e poi Roma è unica, nella sua bellezza, nella sua storia. Voi italiani, nonostante i vostri difetti, e ne avete tanti, credimi - lo disse con convinzione, fissando Massimo dritto negli occhi - siete comunque tra i migliori, se non i migliori. La Nuova Zelanda - altra pausa meditativa, gli occhi azzurro pallidi persi nei ricordi -  … la Nuova Zelanda va bene per chi ama pescare nei fiumi e vuole la solitudine in un mondo spopolato. Spopolato e terribilmente noioso.”


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Dave distolse lo sguardo come per scacciare un brutto ricordo. La mattina era adesso assolata e la gente a spasso più allegra. La Harp di Massimo cominciava a fare il suo effetto. 

 “L’unica cosa che rimpiango – proseguì il neozelandese - sono quelle magnifiche spiagge, infinite, solitarie, con l'oceano di fronte. L'oceano, non puoi capirlo se non ci sei vissuto.”

Si alzò come in trance e si avviò. Poi voltandosi aggiunse, gli occhi leggermente lucidi:

“E forse non rimpiango solo quelle spiagge …”

"Dove vai?" chiese Massimo, colpito dall’espressione del suo amico. “Oggi è martedì, ho giorno libero, mi piaceva stare qui a parlare.”
“Devo assolutamente scappare” disse il vecchio riprendendo il suo tipico distacco bonario.

“Ah, dimenticavo” aggiunse. "Sono passato dall’antiquario e mi ha detto che ha valutato il tuo quadro e che se vuoi te lo compra per un ottimo prezzo, considerando la crisi”.

Si allontanò, il vecchio Dave, la barba bianca sempre ben curata. Aveva quasi 80 anni e nessuno glieli avrebbe dati.

Massimo entrò nel bar per pagare. Le uova di Dave gli avevano stimolato l’appetito. Ordinò una pizza bianca con mozzarella e salame toscano e percorse il locale fino in fondo. Si sedette al bancone non lontano dalla TV mentre una graziosa cameriera gli portava la pizza. Trasmettevano il telegiornale e accanto a lui alcuni avventori parlavano di sangue, di cose mai viste prima. Non ci fece caso e cominciò a mangiare.

Poi alzò gli occhi e li vide.

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I tre cadaveri si stagliavano di schiena contro un cielo striato di rosso, un cielo anomalo, quasi intollerabile. Si guardò intorno e si accorse del disagio dei frequentatori del bar. La criminalità era divenuta efferata negli anni della crisi, pensò con un brivido. Lasciò la pizza sul piatto. Gli era passato l’appetito. Uscì dal locale e fece una bella corsa fino al Colle Oppio, il parco sopra la Domus Aurea, la folle villa voluta dall’imperatore Nerone nel cuore stesso della città di Roma.

Là si mise a sedere su una panchina della piccola strada asfaltata che discendendo finisce davanti al Colosseo. Uno scenario meraviglioso, che lo calmò e lo spinse a riflettere.

Che senso poteva avere quella messinscena? Ricordò le parole del giornalista televisivo, che parlava di adolescenti, e provò pietà. Ma, si disse, perché mettere il cane in mezzo a loro? Si trattava quasi certamente di uno psicopatico. Poi, rifletté, se quei cadaveri e la loro morte avevano qualcosa di assurdo, essi avevano anche qualcosa di logico, di familiare.

Colto da un’improvvisa intuizione prese il cellulare e chiamò la persona che negli anni più bui della sua vita gli aveva fatto da guida, da mentore e Maestro.



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Roma, 6 maggio 2014. Nei pressi di Campo dei Fiori. Ore 6:15 

Il 65enne Giorgio Guardalunga, sentì la voce della moglie chiamarlo dalla stanza da letto. Entrò nella camera in penombra poiché Flavia amava tenere la finestra socchiusa. Le luci dell’alba erano penetrate fievolmente. Si avvicinò al letto e percepì la sua inquietudine.

Le si sdraiò accanto e accarezzò i bei capelli neri che si stavano appena imbiancando.

“Ho sentito un uccello notturno sul far dell’alba che mi ha svegliato” disse Flavia. “Il suo stridio era sinistro e quasi umano. Ghignava.”
“Lo stesso ghigno che ho sentito in un sogno affannoso – proseguì con il fiato corto. “Ero in una bella pianura erbosa ricca di fiori ma senza anima viva. Poi ho visto un bosco, ci sono entrata ma ho smarrito il sentiero che mi guidava. Le fronde degli alberi toglievano la luce e mi avvolgevano minacciose. Poi quel ghigno orribile, e mi sono svegliata di soprassalto."

Giorgio accarezzò la bella fronte teneramente e notò che era imperlata di sudore. Poi le cinse le spalle e lei gli si strinse contro, sentendosi protetta dal suo corpo robusto.

La sentì calmarsi e poco dopo era di nuovo addormentata. La sua regina, la regina dei mari e dei monti, inquieta per un uccello notturno. Un pensiero terribile gli penetrò la mente e gli afferrò il cuore. Poi la dolcezza dell’essere stretto a lui lenì ogni timore e lo fece quasi assopire accanto alla donna che amava profondamente. Rimase così per una mezzora, forse più. Quindi si alzò senza far rumore per non svegliarla e lasciò la stanza.

Alcune ore dopo, nella piccola terrazza del suo minuscolo appartamento inerpicato sui tetti di Roma, Giorgio leggeva con attenzione alcuni antichi testi orfici. Il suo cellulare squillò.

“Maestro, è successa una cosa terribile e molto strana. Due ragazzi e un cane sono stati trovati crocefissi sull’Appia Antica. Il cane era posto al centro e i due ragazzi ai lati, con gli arti superiori e inferiori inchiodati a tronchi tagliati e squadrati di fresco.”
“Tagliati e squadrati di fresco?” chiese Giorgio.
“Pare di sì, secondo il reportage televisivo e quello che ho letto sul browser del mio telefonino” disse Massimo.
“Inoltre – proseguì l’ex calciatore – l’alba che sorgeva dietro ai Colli Albani aveva una luce innaturale, mai vista. Forse la telecamera usava filtri speciali per impressionare i telespettatori. Comunque, una mezz’idea io ce l’avrei.”

Giorgio ascoltò in silenzio le parole del suo discepolo.

“Ne parleremo nel pomeriggio, Massimo. Alle 5, al solito posto. Prima ho da fare.”

Restò in silenzio per qualche minuto. Flavia entrò in terrazza per innaffiare le piante e notò lo sguardo preoccupato del marito. Una ruga le increspò la fronte.

Forse ciò che aspettava stava avvenendo, pensò il Maestro. E con anni di anticipo. Il che, se era vero, era una notizia pessima. Anzi, non pessima, disastrosa.

Non gli mancavano certo gli strumenti per fare alcune verifiche. Salutò la moglie e uscì con passo lesto.


Britannia, febbraio 510 d.C.

l gruppo di romani camuffati da sassoni veleggiava lungo un tratto della costa orientale della Britannia. Il terreno, basso e paludoso, raramente si elevava al di sopra del livello del mare. Essendo abituati al Mediterraneo, privo di maree, avevano scelto un pilota, un Anglo di nome Leofric, dai baffi lunghi e dallo sguardo beffardo, che aveva accettato di condurli dietro l'offerta di una borsa gonfia di solidi d'oro. Il denaro l'aveva convinto a vendere anche la sua lunga barca da cui gli uomini di Marcus avevano espulso senza troppe cerimonie alcuni marinai germanici che non davano troppo affidamento.

Leofric aveva sconsigliato di passare il tratto di mare che separa la Gallia dalla Britannia nei mesi più caldi. Alla fine di febbraio avrebbero avuto meno possibilità di essere intercettati dalle lunghe barche sassoni, aveva fatto notare. “E il rischio di un naufragio è minimo” - aveva aggiunto con orgoglio. “Noi Angli siamo diversi dai Sassoni. Siamo spinti più dall'avventura che dalla ricerca di terre, il che ci rende navigatori più esperti.”

Traversato lo stretto e approdati a Rutupiae [Richborough], dove furono ignorati dagli abitanti locali, la nave seguì la costa, da Sud-Est a Est, percorrendo il Tamesa aestuarium [l'estuario del Tamigi]. Poi costeggiò la terra dei Trinovantes [Essex e Suffolk] per giungere infine a quella che un tempo era la terra degli Iceni [Norfolk], il popolo che più di quattro secoli addietro, al comando della regina Budicca, aveva sfidato la potenza di Roma.

Grazie alla mappa in loro possesso i Romani individuarono rapidamente la grande radura circondata da boschi con lo scheletro della nave mercantile di Massalia [Marsiglia] naufragata e incendiata.

Marcus era il nobile rovinato dai debiti che aveva coinvolto Manius nella pericolosa spedizione. Il naso aquilino e lo sguardo altezzoso, dava indicazioni ai marinai sul luogo più opportuno per l'approdo secondo le indicazioni della mappa.

Sospinto da un mare di cui non aveva confidenza, il mercantile di Massalia, con il suo carico di stagno, perle, e schiavi, era stato rigettato contro la costa da una violentissima tempesta e si era incagliato in mezzo all'acqua bassa. Alcuni degli occupanti erano morti in mare ma la gran parte di essi era stata uccisa dagli isolani o condotta in schiavitù. Le merci erano state depredate, gli schiavi fuggiti o catturati.

Un ex soldato, nascostosi nel profondo del bosco, era però rimasto vivo e libero. Tornato alla nave e accortosi che la cassetta delle perle era sfuggita ai predoni l'aveva nascosta nella fessura d'una roccia e aveva orientato delle pietre in modo da facilitarne il ritrovamento. Sei mesi dopo, a Roma, in una delle taverne della Subura, l'ex-soldato, ubriaco e malato, aveva venduto a Marcus sia la mappa che le informazioni per recuperare il tesoro.

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Era quasi sera. Delle nubi si addensavano all'orizzonte. Manius aveva accettato di far parte della folle spedizione non tanto per il prezioso tesoro, che non gli interessava, quanto per scommessa e per amore del pericolo. La vita gli sembrava intollerabile ora che Delia era andata in sposa a un ricco senatore di trent'anni più anziano di lei. Abbandonata la scuola di perfezionamento umano del pitagorico Apollonide, che si trovava in un'antica proprietà inerpicata sui monti sopra Augusta dei Taurini per sfuggire alle ispezioni e soprattutto ai fanatici cristiani, il giovane si era congedato dai compagni di studi e amici di sempre.

Salutato ad Augusta l'austero padre Atilius, Manius era tornato a Roma dalla madre Marcia e aveva annegato il dolore nei bassi piaceri di Dioniso, anch'essi coltivati in segreto nelle campagne del sud del Latium e altrove.


Durante uno di quei raduni, nelle corse sfrenate per i monti sopra Privernum [Priverno] nei quali con mistico parossismo si adorava ancora il dio enigmatico dell'ebbrezza, là, alla luce vacillante delle torce, Manius si era unito carnalmente con una strana donna dal corpo grondante di vino. Alla luce della luna aveva notato come lo sguardo di lei si facesse di tanto in tanto perplesso, come se l'interrogasse. Fu sorpreso poi nel notare che una parte del suo orecchio sinistro era mancante. Le altre volte che Manius era tornato ad incontrare il dio, la donna misteriosa, sia pur presente, non sembrava più volersi occupare di lui.

Sempre in quelle occasioni Manius aveva conosciuto Marcus. Due anime dissonanti, le loro, che avevano però trovato affinità per essersi smarriti entrambi, anche se per motivi diversi, nel cammino della vita.

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Manius sentì il vento freddo della Britannia sferzargli il viso. “Che strana terra, piena di mistero nonostante la cupezza del clima” pensò. Prima di partire aveva letto i resoconti dell'esploratore greco Pytheas e dello storico Diodoro Siculo. Le genti mediterranee, rifletté, l'avevano sempre sognata, la Britannia, anche molto prima delle imprese di Giulio Cesare e dell'imperatore Claudio: le perle, l'ambra, i guerrieri dipinti, le isole dello stagno. Virgilio poi l'aveva cantata come la regione più remota della terra.

Quando il sole cominciò a tramontare dolcemente dietro la costa e le nubi si tinsero di corallo, Manius fu preso dalla malinconia e il volto di Delia apparve al suo cuore. L'ultima volta che l'aveva vista avevano trascorso qualche ora assieme in un parco sulle rive del Padus [il Po]. Augusta dei Taurinii, la bella ma provinciale città del Nord Ovest d'Italia, era frizzante nel suo sole d'autunno.

Tutto era così meraviglioso. Lungo un sentiero che si snodava tra piante, stagni e fontane, con le vette alpine che torreggiavano maestose sullo sfondo, lei venne esitando verso di lui, i capelli rossi, pieni di bagliori, che si intravedevano dal casto velo e gli occhi verde-azzurri addolciti quasi a chiedergli perdono. Tra baci, lacrime e promesse d'eterno amore Delia gli comunicò la terribile notizia …

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Un gabbiano gli sbatté quasi sul viso e lo risvegliò dal suo sogno. Si guardò intorno. Non sembrava ci fosse anima viva. Marcus, Manius e un gruppo di robusti gladiatori assoldati dal nobile discesero in mare e si diressero a piedi verso la radura a destra della quale doveva trovarsi ciò che cercavano. Avevano abbandonato il travestimento ed erano in pieno assetto da combattimento romano. Una volta su terra asciutta e addentratisi nella vasta radura Manius Lentulus notò le pietre indicate nella mappa. Cominciarono a seguirle e individuarono la grossa roccia incrostata di alghe e posizionata a destra, al limitare di una foresta compatta e verdissima.

Continuarono ad avanzare, con i calzari che affondavano nella sabbia e i gabbiani che riempivano il cielo con le loro grida possenti. Manius si asciugò il sudore misto ad acqua che gli bagnava la fronte. Il territorio, verde e spopolato, era pregevole nella sua selvaggia bellezza anche se trovava fastidiosa la pioggerellina che inzuppava i vestiti, penetrava nelle ossa e che li aveva accompagnati per tutto il periplo della parte sud-orientale di quell'isola misteriosa.

Quando furono ormai vicini al bosco, che quasi copriva, con la sua massa, il rumore del mare, Manius capì che c'era qualcosa che non andava. Il bosco era troppo silenzioso mentre da lontano giungevano suoni che non riusciva a capire anche perché una piccola collina impediva loro di vedere il lato di mare dove si trovava il loro battello. Posizionò lo scudo rettangolare, sguainò il gladio con la mano destra mentre con la sinistra tenne alto il giavellotto. Gli altri romani fecero altrettanto.

Un immenso clamore li sommerse. Più di trecento sassoni uscirono dal bosco urlando e battendo colpi sugli scudi rotondi. Percorrevano a corsa i 60 metri che li separavano da loro e avevano elmetti conici, asce da battaglia e grosse spade a doppio taglio. I romani, vista l'impossibilità di resistere al loro urto, si slanciarono di nuovo verso il mare nel tentativo di risalire sulla nave. Ma scorsero sei barche lunghe e piene di armati non lontane dalla riva.

Qualcosa era andato storto. Erano in trappola.


Maius [Maggio], Augusta Taurinorum [Torino]. 510 d.C.

Gwenn scrutò i cari e leali amici, Briec, Hoel e Adalbert, sorseggiando un'ottima bevanda a base di birra locale, limone ligure e spezie. I quattro compagni erano seduti al tavolo di una taverna tra due colonne doriche in legno del foro rettangolare di Augusta Taurinorum.

“Hoel, sembri un pellicano stamattina” disse Adalbert.

“E tu una via di mezzo tra una pernice e un elefante tedesco. Se è vero che hai sangue gotico nelle vene quante birre ti scolerai prima dell'ora di pranzo?”

“Vuol dire che anch'io ho sangue gotico nelle vene” disse Briec. “Anzi, sapete che vi dico?” e diede una gomitata a Hoel strizzando gli occhi agli altri. “Andrò ad ispezionare con Gwenn la grande cantina qui dietro. Mosso da interesse culturale per la reputazione dei vini locali, naturalmente.”

“Ragazzi – disse Gwenn - smettetela di fare gli idioti e guardate la piazza che si è ormai riempita. Non è uno spettacolo?”

Il foro era ormai pieno di gente di ogni tipo: dame eleganti in lettiga che si godevano il sole primaverile; uomini e giovani della buona società; avvocati e magistrati che svolgevano il loro quotidiano lavoro; faccendieri e mendicanti che si mischiavano a contadini, mercanti, venditori e prostitute. Vi erano anche stranieri d'oltralpe, soldati e piattaforme per il commercio degli schiavi. Ognuno offriva ciò che aveva da offrire e riceveva in cambio ciò di cui aveva bisogno.

Jiulia Augusta Taurinorum, fondata da Giulio Cesare più di cinque secoli prima, non era imponente come Mediolanum [Milano] ma nel foro convergevano le attività di una regione celtica e ligure, mischiata a latini e goti, resa moderatamente prospera dalla vicinanza dei passi delle Alpi Cozie e dal carattere laborioso dei suoi abitanti.

Gli amici erano in attesa di una lettera da parte di Quintus, che viveva in Gallia sulla costa prospiciente la Britannia. Gli scherzi in realtà nascondevano la preoccupazione per la sorte del loro amico Manius scomparso nel nulla dopo la notizia del matrimonio di Delia. Alcune settimane dopo tale scomparsa una lettera di Marcia, la madre di Manius, li aveva informati che suo figlio le aveva fatto visita a Roma ed era poi partito per la Britannia con un certo Marcus. Da allora sembrava che solo Quintus avesse sue notizie.

“Marcia – disse Adalbert diventando improvvisamente serio - non può essere stata di gran conforto per il figlio poiché era completamente fuori di sé quando andai con Manius a Roma. Se ne stava con le sue schiave a fumare oppio e non voleva vedere nessuno, a parte noi.”

Due anni prima il marito Atilius, uomo all'antica della società d'Augusta, non amando i liberi costumi della donna e la predilezione ch'essa nutriva per la giovane schiava Kleio, l'aveva rinviata con pubblico scandalo dalla sua famiglia a Roma, sull'Aventino.

"Mio padre non ha mai veramente amato mia madre" aveva una notte confidato Manius agli amici mentre sedevano su una panca alla luce della luna. "A lui bastava mantenere la rispettabilità nella società cittadina. A mia madre invece la rispettabilità non bastava. Non che papà sia un uomo cattivo, al contrario, ma in realtà, quando gli esseri umani non conoscono la vera sapienza ci sono degli ambienti che non si mischiano: la società raffinata e un po' decadente di Roma, in cui mia madre è cresciuta, sia pure con il suo carattere sincero e impulsivo, per esempio, e le società compatte e dai costumi severi di queste zone a ridosso dei monti."


Adalbert addentò il bel pesce salato di lago che si era fatto portare e che amava mangiare assieme alla birra. Era membro di quell'aristocrazia militare di Vindobona [Vienna] che aveva sempre combattuto valorosamente sul confine del Danubio contro i barbari. Vindobona era una città celtica ma la madre di Adalbert era gotica ed egli sembrava, ed era per molti aspetti, un perfetto tedesco: biondo, massiccio e con gli occhi azzurri sempre pensosi. Era l'amico con cui Manius amava perdersi più a lungo nei problemi astratti della matematica e della musica al punto che gli amici, scherzando, li chiamavano sodales platonici.

Briec e Hoel erano snelli ma robusti, con espressione aperta e onesta. Più propensi alle bizzarrie poetiche con accompagnamento di arpa e cetra, erano di solito scambiati per fratelli per i lineamenti assai simili e i capelli biondo scuri della stessa tonalità. In realtà erano cugini e membri dello stesso clan dell'aristocrazia settentrionale britannica. Assieme ad Adalbert indossavano toghe perfettamente piegate e alla moda. Dei nobili provinciali come loro dovevano tenere all'aspetto in modo particolare per farsi accettare dall'aristocrazia locale. In realtà non erano molto attenti alle convenzioni. Addestrati dal Maestro a comprendere i costumi di molti popoli diversi, – numerosi erano stati i loro viaggi di istruzione - si adattavano alla cultura in cui si trovavano per non avere problemi “come il pesce che si appoggia al corso della corrente e così arriva più lontano.”

Gwenn era la loro amica d’infanzia. Capelli di rame e occhi azzurri, indossava una stola elegante con ricami e disegni rosso azzurri fatta confezionare espressamente per lei a Mediolanum [Milano]. Sorseggiando un altro bicchiere della bevanda speziata pensò all'infanzia e alla primissima adolescenza passate con i suoi due amici a Banna [Birdoswald], una fortezza della Britannia settentrionale. In quei radiosi anni di gioventù l'amore per Hoel si era prima palesato come un frutto acerbo per poi crescere come una pianta robusta.

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I tre Britanni erano i rampolli dell'aristocrazia militare di quel luogo remoto situato nella parte occidentale del vallo di Adriano. Il vallo, assieme al vallo di Antonino più a nord, costituiva quel duplice cordone difensivo che aveva separato i Romano-Britanni dai barbari liberi e dipinti del nord. All'epoca d'oro dell'impero romano il vallo d'Adriano venne rafforzato da quasi venti forti. Tale struttura era poi praticamente collassata ma attorno a Banna e ad altri fortini settentrionali si era radunata da più di una generazione una folta comunità di Britanni in cerca di sostegno contro i barbari che compivano incursioni e stragi da tutte le parti.

Il prestigio dell'aristocrazia militare di Banna sulle popolazioni locali era assoluto poiché vantava una diretta discendenza dalla guarnigione di ausiliari e romani dei tempi dell'impero e poiché in essa la tradizione militare di Roma non si era del tutto affievolita.

I quattro amici, assieme a Quintus, a Manius e alla più giovane Delia, erano sempre stati inseparabili per lungo tempo, e nonostante Quintus fosse ora spesso in viaggio, egli tornava almeno una volta all'anno ad Augusta dei Taurini.

Sorseggiando la bevanda la donna pensò al giorno della partenza per l'Italia, con i genitori commossi che la salutavano dalla vetta di una collina incoronata da querce maestose. I begli occhi azzurri della madre Eavan erano umidi di pianto, e il padre Caedmon, il guerriero più valoroso della comunità, noto per l'imperturbabilità, che non riusciva anch'egli a nascondere il dolore per la partenza della figlia amatissima.

I genitori dei tre giovani avevano deciso di inviarli in Italia tramite canali sicuri per preservarli da una situazione che si andava deteriorando e per assicurare loro un futuro di conoscenza delle sacre cose, al di là della barbarie che avanzava nella terra di Albion e in tutto il continente.

I tre giovani furono un giorno solennemente convocati in un grande salone illuminato da fiaccole e lì Caedmon, alla presenza di tutti i capi della comunità, aveva pronunciato parole che gli adolescenti trovarono oscure:

“Il vecchio ordine si sta disintegrando. Un periodo assai triste si prepara, pieno di forze oscure, poiché il nuovo ordine non si è ancora formato. Al fine di prepararci alle più dure difficoltà inviamo voi, il meglio di ciò che siamo e il nostro futuro, in un luogo dove la luce non si è ancora spenta.”

Poi Gwenn ricordò l'incontro con il Magister, in una piccola valle nascosta sui monti sopra Augusta. Il carro li aveva lasciati di fronte a una villa montana costituita da un insieme di edifici posti al centro di terreni e orti a cui si accedeva attraverso una stradina che non dava nell'occhio e che si snodava tra boschi e radure. Giunti all'edificio centrale, con la bella facciata porticata a colonne, essi furono accolti da tre giovani che li condussero, passando per il peristilium, nell'atrium della vasta casa dove il Magister, il cui nome era Apollonide, li attendeva.

Il Maestro era intento a dettare uno scritto a un giovane schiavo la cui fronte era adorna da una benda purpurea. L'atrio, un'ampia sala da ricevimento e da studio, era affrescato in un modo che lasciò i giovani stupefatti. Gli astri - la luna, il sole, gli altri pianeti con il contorno di stelle e della via Lattea – erano dipinti come volti vivi e intelligenti e si muovevano tutti attorno in un danza meravigliosa. L'artista era riuscito a comunicare non solo il senso della danza ma anche quello della musica, come se tutto l'universo cantasse e danzasse in modo ritmico e armonioso.

Apollonide congedò lo schiavo e con un cenno fece intendere ai giovani di avvicinarsi. Essi si accostarono affascinati e timorosi. L'espressione del Maestro era tra il bonario e il severo. Gli occhi castani penetranti erano contornati da sopracciglia nere sporgenti non ancora incanutite. Folti capelli brizzolati, divisi in due bande tenute ferme da anelli d'oro, facevano da contorno a un viso impressionante. Nell'uomo, imponente per la corporatura, si intuivano forza e agilità ancora intatte, nonostante egli fosse alle soglie della vecchiaia.

Ma fu soprattutto la luce complessa dello sguardo di Apollonide ad esercitare un'impressione indelebile sulla mente prensile della fanciulla: uno sguardo saggio e duro, a volte, che le ricordava quello di suo padre, ma anche intensamente mistico, come se, in sintonia con quelle sublimi pitture, egli veleggiasse in sfere assai più elevate e pure del cosmo e della natura umana.

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Apollonide era infatti uno degli ultimi propagatori di un'antica sapienza fondata su una visione razionale e integrata dell'uomo e dell'universo.

“Grazie ai suoi viaggi in tutto il mondo conosciuto – egli disse loro nella lezione introduttiva che di solito avveniva nel vasto peristilio da cui si poteva ammirare il cielo stellato - Pitagora ha appreso e poi annunciato a tutti gli uomini che l'essenza dell'anima umana è divina, che essa viene dalle stelle e che noi siamo artefici del nostro destino. E' ciò che dicono, in un modo o nell'altro, tutte le filosofie e le religioni del mondo. E' ciò che si è celato nei misteri. L'uomo è un dio che per le sue manchevolezze si è smarrito nel cielo basso della terra ma che può riprendere il posto che gli spetta. Per fare ciò è necessaria una pulizia fisica e morale che lo riconduca alla santità.”

A questo punto il Magister tuonò: “Come credete che ciò sarà possibile? Ditemelo, dunque!”

Briec, Hoel e Gwenn si fecero piccoli nei banchi.

“Ciò sarà possibile solo se Dio sarà il nostro modello! Sì, Dio deve diventare il nostro modello!”

“In questa scuola – continuò passeggiando tra i giovani d'entrambi i sessi – siamo per una visione e un tenore di vita connessi che siano in grado, negli spiriti più elevati, di compiere il miracolo: la creazione, cioè, dell'Homo Pythagoricus, del terzo essere ragionevole oltre l'uomo e Dio.”


Gwenn ricordò ancora con profonda emozione quelle parole che le si erano scolpite nella mente e nell'anima.

“Un essere non volto però solo alla beatitudine dell'aldilà ma perfezionato per vivere pienamente anche su questa terra combattendo le oscure forze del male, in qualsiasi forma e ovunque esse si annidino.”

“Tale uomo deve sviluppare al massimo grado le facoltà della mente ma nemmeno dispregiare il corpo, come fanno gli asceti cristiani e, prima di essi, i pagani neoplatonici.”

“Al contrario, il corpo va curato, reso più bello, forte e armonioso, in modo da farne non solo opera d'arte ma perfetto atleta, perfetto combattente, esattamente come Milone il pitagorico, che vinceva tutte le Olimpiadi e sconfiggeva le falangi. Anche le donne devono compiere tutto ciò. Nell'ordine delle cose il femminile e il maschile sono entrambi necessari, e in ciò dissento da Pitagora e dai suoi seguaci per i quali le donne potevano essere inserite solo nel livello esterno dell'insegnamento.”

Mentre Gwenn ricordava questo discorso alcune nuvole si addensarono improvvisamente sul cielo di Augusta. L'atmosfera si fece più plumbea e i frequentatori del forum, appressandosi l'ora del pranzo, cominciarono a ritirarsi. 

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Poi il sole, radioso, tornò, illuminando della sua potente luce i quattro giovani. E il corpo loro splendette, armonico, perfettamente coordinato, solidamente addestrato, i loro occhi lucenti esprimendo con gioia la corrispondente armonia dell'anima e della mente.

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Appena avvenuto l'incontro con il Magister nell'atrio, che precedette di due giorni il suddetto discorso introduttivo, vi fu un vero e proprio test condotto in una stanza più piccola e senza finestre. I giovani britanni vennero interrogati da Apollonide stesso e da due aiutanti per cinque giorni e cinque notti, con qualche piccola pausa per consumare pasti frugali a base di formaggio, acqua e olive. Con ciò venne compiuta una valutazione iniziale delle loro facoltà intellettuali e morali. Sul piano intellettuale venne valutata la loro predisposizione alle arti del quadrivio pitagorico: l'aritmetica, la geometria, l'astronomia e la musica. Sul piano morale, tecniche antiche ne valutarono l'onestà, la forza di carattere e la resistenza allo stress.

Il test ebbe un risultato positivo. Tutti e tre vennero accolti nella scuola come allievi essoterici [esterni] per un periodo di prova della durata di tre anni.

Gwenn ricordava con disagio quel terribile triennio. Tenuti da parte e quasi trascurati, era loro imposto per lo più di tacere, ascoltare e apprendere le nozioni iniziali di un corpus scientifico e religioso sterminato, la somma cioè di un travaglio spirituale durato millenni e che riguardava l'Egitto, la Palestina (giudaica e cristiana), la Persia, la Caldea, l'India specialmente, e poi la Cina e la Grecia e Roma, naturalmente, senza trascurare il druidismo ed elementi di mitologia scandinava.
Un lavoro quasi insostenibile in cui non erano mancate anche punizioni severe per correggere le manchevolezze del carattere. Un lavoro, lo capirono solo dopo, volto a separare gli eletti da coloro che non lo erano.

Una volta ammessi ai corsi esoterici [interni] tutto divenne improvvisamente più facile anche perché compresero perfettamente dove il Maestro li stava portando con ferma mano. I corsi successivi durarono 17 anni e ora che si trovavano lì nel forum avevano 34 anni.

Sentivano la mancanza di Manius, di un anno più grande, che gli amici avevano conosciuto nella scuola assieme ad Adalbert. Delia, più giovane, i cui studi si erano interrotti per l'inflessibile volontà del padre, ne aveva solo 28 il giorno del suo ritorno a Mantova, la sua città natale.

Quando Delia entrò nella scuola aveva anch'essa solo 15 anni. Fu Manius a notarla per primo, per gli splendidi capelli rossi e gli occhi verde blu assai dolci e lievemente strabici, di quello strabismo noto come strabismo di Afrodite. Prima che Delia fosse inserita stabilmente nei corsi esterni il gruppo di amici ebbe modo di frequentarla di tanto in tanto. La si vedeva spesso in compagnia di un certo Faustus, dei corsi interni, e di Amatia, una novizia come lei.

Una mattina Manius si trovava in uno dei giardini della scuola in cui si era appartato per leggere la vita di Apollonio di Tiana. Lei vi apparve con una semplice tunica celeste e i capelli di rame sciolti al vento fresco che soffiava dalle vette innevate. Come era bella, Delia, così terribilmente bella, il volto appena spruzzato di lentiggini e lo sguardo candido, privo di ogni menzogna, un misto di esotismo, sensualità e innocenza di fronte al quale il giovane era privo di difese. Non osò parlarle, rimase solo a guardarla, semiparalizzato per l'emozione e per il tormento del desiderio insoddisfatto.

Passò un lungo periodo in cui la vide solo di sfuggita. Gli allievi interni e quelli esterni, suddivisi rispettivamente nell'ala destra e in quella sinistra disposte attorno al grande peristilio, potevano frequentarsi solo sporadicamente. Del resto, la natura segreta dei corsi esoterici non permetteva che i giovani si mischiassero facilmente.

Poi, una sera, furono di nuovo riuniti, all'interno del giardino colonnato, su panche disposte tra piante e fontane che rappresentavano sirene e tritoni. La lezione toccò vari argomenti in cui si alternarono diversi docenti. Manius riuscì a sedersi accanto a Delia e a battere in velocità Faustus, che spesso ronzava intorno a lei.

Infine arrivò il Maestro. Cominciò parlando a voce bassa, annunciando che avrebbe parlato dell'amore, e il silenzio degli ascoltatori si fece assoluto.

“A rischio di travisare alcune grandi verità parleremo con linguaggio semplice senza numeri, geometria o astronomia, in modo da essere compresi anche dai novizi. Esiste una potenza dionisiaca che si inabissa nella terra e negli strati bassi dello spazio sotto la luna invece di innalzarsi verso la luce del sole e delle stelle. Tale potenza vive in assonanza con demoni malvagi e uomini di animo basso, che sono i più, ed è per questo che Dioniso è il più rappresentato tra gli dei. Lo troviamo nei mosaici, nei vasi e nelle tombe. Lo troviamo dappertutto. Ma con Dioniso la divinità positiva scompare e abbiamo solo l'ebbrezza prodotta con mezzi artificiali, vino o droghe che siano, il che favorisce una carnalità distruttiva.”

La sua voce si fece leggermente più potente. I suoi occhi cominciarono a scintillare.

“Noi non dimentichiamo che il nostro destino ultraterreno dipende dal nostro comportamento sulla terra. Noi siamo per un amore chiaro, puro e onesto, che ci innalzi verso le sfere alte dell'universo, lontano da ogni miseria terrena."

Manius era così vicino a Delia che i loro corpi si toccavano leggermente. Ciò trasmetteva in lui un calore così intenso che le sue facoltà razionali ne furono annebbiate. Quando le prese la mano e lei con sua sorpresa non lo respinse ma anzi premette il corpo contro di lui le sue tempie cominciarono a martellare e il cuore gli scoppiò.

Ora il discorso del Magister divenne quasi un canto che un allievo accompagnò con il suono di una lira.

“Un amore puro e onesto. Ma anche folle. Sì, l'amore è una forma di follia, e non importa se esso nasce tra uomo e donna, donna e donna, uomo e uomo. Saffo, Socrate o Platone, erano forse esseri impuri? L'impurità non è della persona che Venere, Ishtar o Aine ci spingono ad amare, e non è nella carne, poiché l'amore è sia carnale che spirituale. L'impurità è nell'anima che va corretta da quelle affezioni torbide che pure albergano in ognuno di noi. Godiamo dell'amore onesto, sincero e leale; dell'amore gentile ma anche forte e folle e disposto fino all'estremo sacrificio per la salvezza della persona amata."

La luna, prima nascosta da una spessa coltre di nubi, prese a risplendere tra le piante e le fontane del peristilio. Manius, ispirato dalle parole del Magister, dalla musica e dall'astro benigno che eccita l'animo umano, si voltò verso la fanciulla, la strinse con forza alla vita e la baciò. Lei rispose al suo bacio con l'amore spontaneo dei primissimi anni di gioventù. Fu un bacio lungo, giovane, puro, che tolse loro il fiato; fu anche un bacio meravigliosamente sensuale. E il dono di quell'estasi sublime fece loro varcare le porte dell'infinito.

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Manius Papirius Lentulus aveva vissuto l’infanzia e la prima adolescenza a Roma con i genitori e si sentiva romano della città di Roma. Poi la famiglia si era trasferita ad Augusta, la città del padre Atilus, dove Manius era stato accettato ai corsi esterni della scuola di Apollonide per poi passare ai corsi esoterici. Anche Quintus era romano di Roma ma i due si erano conosciuti solo nella scuola sui monti dove, legatisi da profonda amicizia, erano poi confluiti nel gruppo di amici reso più saldo da quei legami della prima giovinezza che difficilmente si dimenticano.

Dotato di una buona dose di umorismo e di senso pratico, amante della buona cucina e delle belle donne, egli aveva presto compreso che la sua vocazione non erano gli studi pitagorici quanto la politica internazionale, la conoscenza dei popoli e delle loro rispettive culture. I suoi frequenti viaggi nella Gallia settentrionale gli avevano procurato amicizie nelle corti di alcuni potenti re Franchi presso cui svolgeva la funzione di segretario e consigliere.

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La lettera di Quintus arrivò due giorni dopo che gli amici si erano riuniti nel foro a bere e parlare. Il cielo era mutato, appariva cupo, terribile, come se una luce nera splendesse dietro alle nubi.

Il testo, dal tono sovente tragico, era indirizzato soprattutto ai tre Britanni poiché disegnava in modo circostanziato la storia dell'isola negli ultimi 60 anni così come il Romano era riuscito a ricostruirla.

“Eravate ragazzi quando lasciaste la vostra terra e i vostri genitori avevano tutto l'interesse a non svelarvi del tutto una situazione spaventosa. Tre generazioni prima della vostra nascita i Britanni, indeboliti dalle pestilenze, dalla disunione e dalla partenza o discioglimento delle legioni, si erano comunque difesi coraggiosamente contro gli attacchi dei barbari: degli Scoti [pirati irlandesi], da ovest, e degli uomini dipinti, o Picti, da nord. Voi della stirpe di Banna ben conoscete queste cose. La situazione però è precipitata quando pirati ben più formidabili si sono affacciati sulle coste meridionali e orientali dell'isola: Germani delle stirpi degli Angli, dei Sassoni e degli Juti provenienti dalle cupe coste dei mari del Nord.”

“Essi, a differenza dei Goti o dei Franchi loro cugini, non conoscevano la forza civilizzatrice di Roma, il che li rese feroci contro popolazioni da essi giudicate molli e aliene. L'invasione fu prima una migrazione, nel Cantium [Kent], di fronte alla Gallia, e poi in tutto il Sud-Est, l'area allora, e in parte ancora oggi, più popolata e ricca di Albion.”

“Una volta raggiunta una cifra ragguardevole – si parla di  200.000 persone, famiglie comprese – i barbari erano utilizzati dai Britanni come mercenari contro i loro nemici. Il valore di questi Germani era innegabile. Si ricordano due fatelli, Hengist e Horsa, condottieri leggendari simili ai nostri Castore e Polluce. Poi tuttavia i barbari si rivoltarono contro i loro padroni e presero a sterminare la gente agiata del Sud. Gli eserciti inviati contro di loro furono annientati. Città con anfiteatri, terme e fori vennero rase al suolo, intere popolazioni ridotte in schiavitù. I ricchi proprietari abituati agli agi delle loro ville riscaldate fuggirono verso la costa ma vennero trucidati sulla spiaggia assieme a mogli, bambini e servi, prima di potersi imbarcare verso la salvezza.”

"La guerra continua ancora oggi, combattuta palmo a palmo. L'Ovest e il Nord sono adesso in pericolo. E io credo che la disunione, a cui ho già accennato, sia l'elemento che rischi di perdere il vostro popolo. A quanto ne so i Picti – proseguiva la lettera di Quintus - sono più volte arrivati fino al centro dell'isola, e ciò non può esser accaduto senza un aiuto dall'interno. E' come se la gente delle campagne non si sia mai adattata ai costumi romani e preferisca i Pitti o gli Scoti alle aristocrazie britanniche romanizzate ormai in declino."

"Infine, amici miei, ho cercato di ritardare in questa missiva l'argomento dolorosissimo che ci tocca tutti. Manius è stato catturato dagli Angli. Sembra essere il solo sopravvissuto della folle spedizione. Nella terra un tempo degli Iceni e ora occupata da questo popolo, dove la vita scorre lenta poiché boschi e paludi formano come una barriera, la cattura di un soldato romano vero, cioè proveniente dalla stessa Roma, non poteva passare inosservata. Ciò mi è stato confermato da alcuni mercanti tra cui un greco, un certo Pavols, che gode della mia più completa fiducia.”

Nell'udire l'ultima notizia Adalbert spezzò il recipiente di ceramica che teneva in mano. Il mento gli tremava. Gli amici, scossi da un intenso dolore, si guardarono negli occhi. Seguirono lunghi momenti di silenzio. I tre britanni furono profondamente toccati dal resoconto di Quintus. Tutto il loro mondo sembrava disintegrarsi. Pensarono ai genitori, agli amici rimasti Banna, e il loro cuore si strinse. Poi pensarono a Manius, la figura centrale del loro gruppo, in mano a selvaggi feroci.

Ma anni di addestramento non erano passati invano. Il profondo dolore fece presto posto a una risoluzione incrollabile, purissima. Dopo essersi scambiati alcune impressioni la partenza venne giudicata improrogabile e fu decisa per l'indomani. Le loro mani si serrarono sul tavolo in un patto solenne. Avrebbero dato anche la vita per salvare il loro amico e la Britannia in pericolo.

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Mentre i quattro lasciavano il foro un mendicante zoppo che era rimasto in piedi non lontano dal loro tavolo li seguì con lo sguardo. Sporco, il vestito lacero, si appoggiava a un bastone. Assicuratosi della loro scomparsa nelle strade di Augusta gettò il bastone e si affrettò correndo nella direzione opposta.


Roma, 6 maggio 2014. Rione Monti. Ore 12:30 

Il negozio dell'antiquario si trovava in via Madonna dei Monti, l'antico Argiletum o via dei librai di duemila anni prima, dove Orazio, Marziale e Seneca acquistavano i loro rotoli di papiro.

Il locale era spazioso ma talmente zeppo di oggetti che quasi non ci si muoveva al suo interno. Il proprietario era un certo Gustavo Galamberti, d'età indefinibile tra i quaranta e i cinquanta, il viso distinto e le mani sempre ben curate. Aveva acquistato il locale due anni prima e dopo nemmeno un anno di attività vantava già una fedele clientela. Era un uomo di ampia cultura e Massimo, la cui mente era avida di conoscenza, passava ogni tanto da Galamberti e curiosando tra gli oggetti si intratteneva a parlare con lui.

Entrò nel locale per vendere il suo quadro ma soprattutto per distrarsi dagli eventi che si erano verificati nelle ore immediatamente precedenti. Notò subito i nuovi arrivi: una stufa a legna viennese in ghisa, imponente, sontuosa, e un bel serre-papier francese del XVIII secolo.

Massimo amava la Francia e parlava correntemente il francese. Suo padre, di cultura valdese calvinista, era originario della zona tra la Val di Susa e Pinerolo, in Piemonte, luoghi in cui il dialetto era più simile al francese che all'italiano.

“Ah, la Francia” disse Galamberti. “A tuo padre sicuramente piacerebbe il serre-papier.”

“Molto meno a mia madre, che è trasteverina” ribatté Massimo con una smorfia. “Un matrimonio veramente mal combinato. Mamma non sopportava Torino ed è tornata a Roma dalla sua gente, anche se i romani veri come lei sono quasi scomparsi.”

L'oggetto che più lo colpì fu però un antico pianoforte a coda tirato perfettamente a lucido. Osservandolo più da vicino notò la perfezione del restauro e la marca: Pleyel.

“Sì, Massimo” disse Galamberti intuendo i suoi pensieri. “Un magnifico Pleyel a coda del 1840 restaurato con tale accuratezza da ricreare la tessitura di suoni amata da Chopin. Quando arte e scienza si fondono possono compiere miracoli, anche se esse sono una cosa sola, come era già noto migliaia di anni fa, non ti pare?”

Massimo stava per dire la sua quando il trillo della porta interruppe la loro conversazione.

“Signora Camilla!” disse Galamberti con tono vivace.

Massimo si girò e vide due donne entrare del negozio. Una, sui 45 anni, avanzò nel locale con un'andatura vagamente imperiosa. Era bella e gli occhi grigi erano così allungati dall'eyeliner che sembrava una regina egizia. L'altra che la seguiva era molto più giovane, sotto i trent'anni. Aveva splendidi capelli rossi e un viso con poche lentiggini su cui risaltavano occhi verde blu resi dolci e sensuali dallo strabismo detto strabismo di Venere.

“Sono venuta a vedere il Pleyel” – disse la donna più anziana con un forte accento nord-europeo. “Immagino sia quello” aggiunse, e diede uno sguardo a Massimo che era intento a contemplare la giovane con i capelli rossi.

“Ah, dimenticavo, questa è Deirdre, Gustavo, una mia amica appena arrivata dall'Irlanda. E un'eccellente pianista, te l'assicuro.”

“Piacere di conoscerla, Deirdre, – disse l'antiquario in inglese. Poi aggiunse, compiaciuto: “Sì, è il Pleyel. Un’opera mirabile, dal suono meraviglioso, il più fedele possibile a quello dei pianoforti dell'epoca.”

“Possiamo provarlo?”

A un cenno espansivo d'assenso, a cui si unì l'incoraggiamento di Camilla, Deirdre si avvicinò al piano e ne sollevò delicatamente il coperchio. Le sue dita, pallide e affusolate, ne scorsero brevemente i tasti d’avorio appena ingiallito. Alcune note, profonde e dolci, risuonarono nella stanza.


Poi la giovane si accomodò su uno sgabello girevole e dopo qualche secondo di silenzio nella stanza echeggiò un canto malinconico che evocava paesaggi silenziosi immersi nella nebbia.

Camilla, quasi interrompendola, disse: “Suonami 'Nell’antro del re della montagna' dal Peer Gynt di Edvard Grieg, un musicista della mia terra, la Norvegia.”

La giovane prese a suonare con una riluttanza che a Massimo non sfuggì. Peer Gynt – rifletté intrigato – era un eroe del folklore norvegese che si trova nell'antro del re dei troll Gudbrandsdalen. I troll lo attaccano e voglio ucciderlo. Il compositore aveva cercato di ricrearne la furia.


La musica, una danza, cominciò prima lenta e ben scandita, poi aumentò gradatamente in velocità. Il Pleyel emetteva suoni diversi da quelli dei pianoforti moderni, facendo risaltare anche le tonalità intermedie della tastiera, e la giovane irlandese ne aveva perfettamente intuito le possibilità. Massimo fu affascinato dalle qualità della ragazza e da un candore che mal si accordava con la musica la quale continuò a crescere di ritmo e forza fino a farsi frenetica, diabolica. A quel punto Deirdre improvvisò una brusca cadenza che concluse il brano prima del tempo.

“Non amo i troll – disse guardando Camilla quasi a chiederle scusa. "Preferisco i folletti della nostra terra.”

Il lievissimo imbarazzo venne subito rotto dall'antiquario che chiese a Camilla:

“Le piace il piano, allora?”

Gli occhi della norvegese espressero assenso.

“Lo prendo, Gustavo” disse con distacco. “Ecco un acconto e domattina, quando le saldo il resto, me lo farà recapitare a casa. Adesso andiamo, Deirdre cara. Il prezzo, del resto, l’avevamo già concordato.”

Le due donne lasciarono il negozio. Massimo accennò brevemente al quadro, disse che l'indomani sul tardo pomeriggio avrebbero concluso e uscì dal negozio. Voleva seguirle per vedere se abitavano nei paraggi e non gli andava di chiederlo a Galamberti. Percorse in tutta fretta Via Madonna dei Monti ma di loro non c'era traccia. In un attimo fu allora a via dei Serpenti.

Erano là, all'incrocio con via Cavour, sedute all'interno di un taxi, che si allontanò a piena velocità.


Britannia, febbraio 510 d.C.

La testa gli girava. Aveva un forte dolore alla nuca e alla caviglia sinistra. Immagini e suoni affiorarono alla sua coscienza: il volto grave ma sereno del Maestro, che prima della sua partenza aveva pronunciato le parole sibilline: "Segui la tua costellazione, Manius, la tua costellazione"; i volti segnati dal dolore della madre Marcia e di Delia, che lo guardava piangendo sulle rive del Padus; infine il rumore di armi e le risate di vittoria di guerrieri che parlavano una lingua incomprensibile.

Furono questi suoni a scuoterlo dal sogno. Era riverso a faccia in giù e ricordò immediatamente quanto era avvenuto. Erano stati accerchiati da guerrieri provenienti sia dal mare che da terra e i suoi compagni erano caduti l'uno dopo l’altro. Marcus era morto quasi subito, colpito al collo da un’ascia da lancio. Manius invece aveva continuato a combattere e a uccidere i nemici facendo il vuoto intorno a sé. Operava in modo lucido, razionale, essendo in grado di calcolare i movimenti di almeno venti avversari contemporaneamente e quindi di prevederne le mosse. Ma qualcosa alla fine l’aveva colpito alla nuca, una pietra forse, e gli aveva fatto perdere i sensi. L’ultimo ricordo, mentre cadeva, era il piede sinistro incastrato in una roccia.

Pensò a Marcus. Una morte rapida, la sua, dunque fortunata. Pensò poi al pilota anglo Leofric, che li aveva traditi, non vi erano dubbi. Qualcuno probabilmente era stato inviato ad avvertire gli Angli alcuni giorni prima della loro partenza, il che spiegava una trappola perfettamente organizzata. Decise che avrebbe portato molti selvaggi con sé nell’Ade. A tal fine aveva bisogno di tutte le risorse della mente e del corpo. La mente sembrava a posto. Quanto al corpo, le profonde conoscenze di anatomia apprese alla scuola di Apollonide gli permisero di verificare ogni muscolo, tendine e osso con movimenti impercettibili che non dessero nell’occhio, in quanto i barbari, era ormai chiaro, lo credevano un cadavere. Con profonda delusione si accorse che il dolore alla caviglia non era una semplice distorsione ma una lesione molto grave. Il dolore gli avrebbe fatto perdere chiarezza di mente e l'avrebbe consegnato ai nemici prima del tempo. Scacciò quei pensieri come vili e si preparò alla battaglia.

Gli Angli parlavano e ridevano e tra le voci distinse alcuni timbri femminili. Rimase immobile e in silenzio, in attesa dell'occasione propizia. Essa arrivò quando la gamba bianca di un barbaro passò vicino al suo braccio destro. L'afferrò alla caviglia e l’Anglo ruzzolò per terra. Con un balzo gli fu sopra, gli torse la testa spezzandogli l’osso del collo e si impadronì delle armi che portava, una lancia e un’ascia da lancio. Quattro guerrieri che si trovavano a una distanza di 10 metri si girarono sorpresi e si slanciarono verso di lui. Manius fece leva sulla caviglia sana e balzò verso di loro ad angolo acuto rispetto alla linea che li separava. Ma, non reggendo al dolore, proseguì rotolando a terra e si arrestò a 5 metri dietro alle loro spalle. Gli Angli si trovarono così in posizione sfavorevole, poiché necessitati a girarsi. Mentre compivano tale movimento, il romano ne stese uno con l’ascia, la quale si conficcò nella sua schiena; colpì con una grossa pietra un secondo, sul lato sinistro della testa; e il terzo con la lancia, che gli trapassò la gola spruzzando un fiotto di sangue scuro che si sparse sul terreno. Restava infine il quarto Anglo che cominciò ad avventarsi contro Manius ma poi cambiò idea e arretrò velocemente. Un compagno gli tese un arco; lui lo prese e attese che gli venissero fornite anche le frecce.

Intanto gli Angli si erano fatti loro intorno. Formavano un larghissimo cerchio e incoraggiavano il loro compatriota con grida, ululati e suoni. Alcuni però giudicarono sleale il combattimento con l’arco data la distanza tra i due, ormai notevole, e il fatto ormai chiaro che il romano era zoppo. La prima freccia arrivò sibilando, ma Manius la schivò. Il dolore alla caviglia si era fatto lancinante e cominciava ad annebbiargli la mente. Riuscì a schivare anche la seconda freccia, e ciò provocò l’approvazione di un certo numero di barbari, mentre i più incoraggiavano il compagno e un terzo gruppo insultava il romano fissandolo con odio e minacciandolo con le armi.

Ad un certo punto, dietro a una roccia non lontano, Manius scorse uno scudo romano rettangolare. Con sforzo immenso rotolò in quella direzione, afferrò lo scudo e conficcatolo a terra si accucciò dietro di esso schermandosi così dai dardi che piovevano a intervalli regolari.

Il clamore dei guerrieri si fece più assordante, in un crescendo senza fine. Percuotevano gli scudi rotondi, bevevano in rozze coppe di legno urlando a pieni polmoni e suonando strumenti ricavati dalle corna del bestiame. Era ormai una festa guerriera in grande stile a cui partecipavano anche le donne e i bambini. Manius sentì la testa scoppiargli. Il dolore era ormai insopportabile, alla caviglia ma anche alla nuca. Tutto lo spingeva ad abbandonarsi al suo destino quando ricordò le parole udite in un tempio dedicato alla bella e dolce Iside. Le pronunciò pregando la dea con tutto il cuore, e pregò anche la madre, e Delia:


Non ergo essem
non omnino essem,
nisi essetis in me...

Non esisterei,
non esisterei affatto,
se voi non foste in me ...


La preghiera lo placò e lo spinse a chiamare a raccolta tutte le facoltà della mente, del corpo e dell’anima. L'istinto di sopravvivenza prevalse. Valutò in un attimo la situazione e capì che aveva una sia pur tenue possibilità di salvezza.

Accanto a lui vi era una bella pietra rotonda. La prese soppesandola e calcolando la parabola necessaria assieme alla forza e alla direzione del vento. L’intervallo era notevole e il lancio sembrava impossibile anche per la dimensione del sasso. Molti guerrieri mostrarono con scherno il loro scetticismo. Manius ruotò tre volte su di sé usando come perno la caviglia sana e il sasso venne scagliato con forza verso le nuvole. Gli occhi di tutti si levarono in aria. La pietra volò alta e sembrò quasi sospesa in cielo per un tempo interminabile. Quindi venne giù e colpì in piena fronte il barbaro che era fuori guardia perché mai avrebbe pensato al successo di un simile lancio.

Ci fu un boato tra gli astanti e molti innalzarono le coppe in direzione del romano. Ma un folto gruppo di guerrieri si staccò dal cerchio e con sguardo truce cominciò a dirigersi verso Manius con l'intenzione di finirlo.

Una voce possente, tuttavia, echeggiò nella radura:

“Che nessuno tocchi il romano!”

Gli Angli tacquero e i guerrieri in corsa si arrestarono. Un uomo di enorme stazza avanzò al centro della circonferenza, l’armatura adorna di macabri trofei.

“E’ un valoroso" continuò il gigante. "Ma visto il dissenso di alcuni di voi gli faccio dono della vita soltanto. Non riceverà né cibo né indumenti e vivrà in una delle torri del fortino lungo il mare. Sarà libero di andare e venire nel mio territorio, ma non di tornare al suo paese."

Poi si avvicinò a Manius e si batté il petto dicendo:

"Ic Wulf, Aenglisc".

Manius fece lo stesso ed esclamò:

"Manius, Romanus."


Roma, 6 maggio 2014. Ore 16:30 

“Questa sera non posso venire a cena, Gloria” disse il commissario Carlo D’Agostino. “Ma Carlo, ti avevo preparato i bringoli di Anghiari tirati a mano con sugo di cinghiale ....” Il tono della donna era deluso. Poi aggiunse, preoccupata: “ Il caso dei cadaveri sull’Appia antica?”
“Sì, ma stai tranquilla, è tutto a posto. Ti chiamo dopo appena posso, adesso ho una telefonata di servizio. E i bringoli mettili in frigo, li mangiamo domani sera, se vorrai.”

Premette il tasto che lo collegava all’altra linea. Era Franco Cardini, della polizia scientifica.

“Ciao Franco, hai qualche novità?”
“Un’analisi completa l’avremo tra due giorni.”
“Due giorni? Ma i media ci stanno addosso, e il vice questore mi ha appena telefonato.”
“Ascolta Carlo, abbiamo quasi 30 casi arretrati da analizzare. Dì al vice questore che ci diano i mezzi dei carabinieri dei RIS e allora lavoreremo più in fretta. D'accordo, domani. Nel frattempo ho qualcosa per te anche se ancora da verificare.”

Cardini fece una pausa come per riordinare le idee.

“La morte è avvenuta poco prima che voi arrivaste. O forse durante il vostro arrivo.”
“Ma sei sicuro? Quindi alle 5:45 del mattino. Fammi pensare. Il giardiniere indonesiano avrà trovato i corpi in stato di incoscienza e li avrà creduti morti. Poi siamo arrivati noi.”
“Esattamente. Il sangue delle vittime gocciolava ancora sulle croci quando li avete trovati. Ora, a morte avvenuta il flusso sanguigno si arresta in pochi minuti poiché il cuore non pompa più, il che prova che sono deceduti quando siete arrivati o pochi minuti prima. Inoltre sia i due giovani che il cane - continuò Cardini - sono morti dopo terribili sofferenze, torturati a lungo crudelmente. Il che può forse aiutare a scoprire l’ora del rapimento."

“I genitori ci hanno detto che sono usciti di casa il pomeriggio. Stiamo cercando testimoni che li abbiano visti a Ciampino e nel parco verso il tardo pomeriggio o la sera.”

"Un'altra cosa, Carlo, anche abbastanza insolita.”

Il commissario attese in silenzio. Aveva in bocca il suo Romeo y Julieta, un sigaro che non violava alcuna regola perché non lo fumava ma lo teneva solo in bocca, spento.

“ll legno utilizzato per le croci è lo Jichimu, un legno cinese e asiatico dalle venature simili a quelle delle ali degli uccelli. Lo importiamo come assi stagionate, già tagliate, per mobili e parquet. Qui però abbiamo tronchi tagliati di fresco e con un rinforzo esterno in metallo in quanto il legno fresco non è robusto e può spaccarsi. Per cui ...”

“Per cui è il momento di fare una bella telefonata …”

“Ispettore Santagata, - disse D’Agostino sull'altra linea - lasci l'indagine sui testimoni ad altri e mi setacci con i suoi uomini tutte le falegnamerie che trattano e soprattutto tagliano il legno cinese Jichimu non stagionato. Sì, Jichimu, guardi su Internet. Controlli un raggio di 50 km, e, se necessario, di 100 km dalla zona dei cadaveri sull'Appia antica.”

“Un’ultima cosa, Carlo. I cadaveri avevano tracce di vino sul corpo, tracce che stiamo analizzando.”

Abbassata la cornetta, il commissario D'Agostino continuò a riflettere mentre guardava una vecchia foto che lo ritraeva con dei vecchi compagni ad Arezzo, sua città d’origine. Aveva 12 anni e Franco Cardini, che in quegli anni per scherzo amava portare il basco, 11. Poi si sollevò dalla scrivania e andò alla finestra, pensieroso. La zona dell’Appia, antica e nuova, era ancora oppressa dalle nuvole e dalla pioggia.


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